Nato nel 1940, Franco Vimercati è studente ai corsi serali dell’Accademia di Brera dove intorno a sé il cosiddetto Realismo esistenziale di artisti come Bepi Romagnoni e Tino Vaglieri e gli ultimi sviluppi dell’Arte informale, che anche lui scopre come una liberazione dalla concezione tradizionale della pittura e sperimenta nei suoi primissimi dipinti. In questi primi anni vi sono già anche alcune reazioni al tormento psicologico e formale di Spazialismo e Nuclearismo. Nel !959, anno della conclusione dei suoi studi, apre la galleria Azimut di Enrico Castellani e Piero Manzoni, che sono uno schock per Vimercati e si radicano profondamente in lui.
Così si avvicina allo spazialismo, ma subito vuole “uscire dal quadro”, dalla superficie e dal rettangolo, e va verso l’oggettualità che “decostruisce”: la tela si fa supporto su cui vengono applicati, invece che dipinti, degli oggetti.
Nel 1961 Vimercati viene selezionato al Premio San Fedele e in seguito invitato al Premio Lissone. In seguito Vimercati è costretto a partire per il servizio militare e successivamente a interrompere la sua attività di artista per impiegarsi come grafico per mantenersi.
Per diversi anni, quindi, Vimercati non produce più opere e si allontana dal mondo dell’arte, ma grazie alla sua attività di grafico, che presto pratica in proprio, inizia a interessarsi alla fotografia. Nel 1972 conosce Ugo Mulas, che lo segnerà fortemente, e Luigi Ghirri, che frequenterà a lungo.
Nel 1973, nel villaggio dove si reca da qualche anno in vacanza d’estate, prende in mano la macchina fotografica, realizzando scatti degli abitanti del luogo in cui è già presente la sua impronta. Un soggetto fermo, per lo più al centro dell’inquadratura, nessuna enfasi, nessun evento, anzi la ricerca stessa della discrezione, quasi dell’inespressione, per far sparire l’io dietro un puro sguardo, attento e pensoso. Niente oggettualità, ma precisione ed essenzialità, realtà e concretezza.
Niente deve distrarre e niente deve essere aggiunto: l’oggetto deve parlare da solo, è la fotografia a farlo parlare tanto quanto esso fa parlare la fotografia. Inizia così il lavoro con un gruppo di serie, in cui sembra riprendere ad uno ad uno tutti gli elementi presenti in quella delle Langhe, la figura, lo spazio, il tempo, la sequenza, la differenza, la composizione, il formato, mettendoli ciascuno al centro dell’analisi, ognuno attraverso oggetti nuovi. È così che l’oggetto guadagna il centro della scena.
A influenzare Vimercati sono nuove scoperte in ambito artistico, quelle del minimalismo, che in lui consolidano il ricordo di Castellani, tra cui i pittori Ad Reinhardt, Robert Ryman, Agnes Martin, e Giulio Paolini. Cambia anche formato, introducendo il tondo, e varia il rapporto figura-fondo, introduce ombre, riflessi, complica l’oggetto per forma e composizione. Finché, a un certo punto del 1980-81, sembra concentrarsi su un unico oggetto, una brocca di ottone su cui riprende tutte le variazioni e altre ancora, in particolare sfoca per la prima volta l’oggetto, ma soprattutto abbandona la serie e produce anche immagini singole. Così ad essere potenzialmente infinita non è più la serie degli oggetti ma quella delle possibilità della fotografia sempre differente, nel duplice senso già indicato dell’espressione.
Ancor meno didascalica delle serie precedenti, la progettualità si discioglie man mano in visione, in sguardo. Sarà l’influenza dell’Oriente, che Vimercati ha cominciato a studiare, appassionandosi in particolare ai tappeti, fatti di figure pattern, ma soprattutto di intreccio, di gesti ripetitivi e di nodi, all’interno di un progetto stabilito in partenza. Ora sembra interessarlo appunto la dialettica tra progetto e libertà, tra immersione nella ripetizione e possibilità di trovarvi un campo d’azione.
Nel 1992 l’artista chiude il ciclo della zuppiera e interrompe di nuovo la sua attività, che riprende solo due anni dopo con un particolare trittico che ha come oggetto un vaso bianco di ceramica, dalla fattura vagamente antica, con scanalature lungo il corpo e decorazioni. Nel 1995 Vimercati abbandona le serie e si apre ai cicli, e gli oggetti si moltiplicano. Inoltre, gli oggetti sono capovolti, cioè in realtà come appaiono nel visore, come li “vede” la macchina. È un modo ulteriore per parlare della fotografia piuttosto che dell’oggetto rappresentato, e per astrarsi dal processo fotografico e farlo diventare tutto meccanico, linguistico. Poi gli stessi oggetti vengono sfocati, sospesi su uno sfondo nero, metafora della condizione umana e del reale, sospesi tra l’essere il non essere.
La fase più estrema è quella in cui evita anche l’uso dell’obiettivo, utilizzando dunque la macchina come un puro foro stenopeico. Infine torna al fuoco e raddrizza di nuovo le immagini, incominciando invece a variare le dimensioni. Nell’ingrandimento guarda e invita a guardare con più attenzione il dettaglio. Nel rimpicciolimento Vimercati pensa alla qualità grafica delle incisioni.
Vimercati aveva compreso che nella discrezione sta il linguaggio e nel linguaggio la vera manifestazione dell’io.